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martedì 18 febbraio 2014

“Le grandi madri della scrittura” di Dacia Maraini

(Prefazione a Ragione e Sentimento di J.Austen)
Le donne leggono. Hanno sempre letto molto. Ci sono grandi e piccoli quadri che le ritraggono mentre tengono in mano un libro sdraiate su un divano o sedute su sedie imbottite, o distese su un prato, immerse nella lettura. Il pittore sembra osservare con occhi un poco invidiosi la capacità di concentrazione della sua modella che, quando legge, dimentica ogni cosa.
Eppure in quel leggere silenzioso e segreto c’è un’intenzione nascosta che ha spaventato gli educatori e i controllori dei costumi di tutti i tempi. Da ricordare che Flaubert fu denunciato per avere scritto un libro pericoloso basato sull’adulterio (sto parlando di Madame Bovary) che, dovendo finire nelle mani delle “signorine da marito”, avrebbe provocato danni “irreparabili”. Evidentemente le signorine da marito dell’Ottocento erano avide di libri e quando affondavano il naso in un romanzo non mostravano molta voglia di uscirne.
 Qualcuno potrebbe dire che era un modo di viaggiare nel tempo e nello spazio, per una immaginazione femminile spesso costretta in stanze piccole e anguste, impedita ai viaggi e a qualsiasi avventura che non fosse casalinga. Forse era questo. Ma voglio pensare che ci sia qualcos’altro che spinge le donne – ancora oggi in maggioranza lettrici di romanzi – a innamorarsi così palesemente delle narrazioni su carta. Prima di tutto il mistero del passaggio del tempo. Perché corre tanto? Dove va? Da dove viene? Cosa provoca e cosa significa? Cosa conserva e cosa perde? Pensieri di chi è abituato storicamente a fare i conti con il proprio corpo che si trasforma, osservato con sorpresa, inquietudine e a volte sincera paura. Pensieri di chi cerca, come gli antichi prigionieri, di uscire da quella segreta, se non contando sulle proprie gambe, per lo meno sulla propria immaginazione e sui propri sensi profondi. Per chi sta ferma dietro una finestra (vi ricordate Emily Dickinson che non uscì mai dalla sua casa e non ebbe mai modo di pubblicare una sua poesia mentre era ancora in vita? E di Isabella Morra che, relegata nel castello di Valsinni, passava le giornate sulla torre a scrutare l’orizzonte per vedere se arrivasse qualcuno – il padre che glielo aveva promesso – a liberarla da quella prigionia?) il passare del tempo si presenta come un arcano incomprensibile.
Il mistero della metamorfosi e del passaggio del tempo teneva gli occhi delle lettrici aggrappati ai libri. Sprofondate nelle storie altrui, vivevano vicariamente destini lontani, vicende straniere. E i fantasmi di quelle storie colorivano di sé le piccole azioni quotidiane ripetute mille volte, i doveri che fissavano la giornata delle donne alla cucina, alla stanza da letto, al tinello. Un senso di eternità che si accompagnava alla reiterata quotidianità, che per la lettrice appassionata era segregazione e fonte di ispirazione, luogo di tortura e, appunto, finestra da cui osservava il mondo.
Una donna che legge non fa paura. Ha gli occhi su una pagina scritta e sembra che dorma. Lo scintillio delle sue pupille – Ortega y Gasset scrive che si esce da un libro con le pupille dilatate – non è visibile. Eppure c’è. E può inquietare chi diffida e vede nel silenzio femminile un segno di pericolo. Qualcosa che cova e potrebbe provocare esplosioni impreviste. Non a caso i libri erano proibiti perfino dai medici per le giovinette che si preparavano a diventare madri…………………...
Anch’io, per tanti anni, mi sono nutrita dei grandi romanzi dei padri. Un giorno però mi sono chiesta: ma dove sono le madri? I padri li ho qui intorno a me, mi hanno tenuto compagnia, mi hanno affascinata e innamorata, mi hanno incantata e deliziata. A quindici anni avevo letto tutto Conrad  - il mio preferito di sempre -, tutto Henry James, tutto Proust, tutto Dostoevskij, tutto Verga, tutto Pirandello, tutto Faulkner, tutto Beckett – a cui per anni ho voluto assomigliare con tutta me stessa. Ero una ragazzina portata alla lettura e alla meditazione. Ho rinunciato a infiniti balli, feste, gite per leggere. A volte cercavo di mediare i due piaceri. Mi portavo il libro in barca e leggevo sotto il sole senza accorgermi del bruciore dei raggi. Mi ritrovavo tardi nel pomeriggio con le piaghe sulle spalle, un gran mal di testa e la nausea che pulsava in gola. Ma non per questo ho rinunciato. Ho perfino provato a portare un libro nella giacca a vento quando andavo a sciare. Leggevo durante le attese allo skilift. O mentre gli altri si sorbivano una cioccolata calda chiacchierando del più e del meno, mi sedevo in disparte su un gradino di legno e tiravo fuori dalla tasca il libricino di turno. Portavo con me libri di tutte le dimensioni: da saccoccia, da zaino, da borsa, da tasca, perfino da taschino. Quando si ama appassionatamente la lettura, il tempo lo si trova, a costo di mangiarsi le ore di sonno, di lesinarle al gioco, all’amore, al cinema.
Ma ecco, a un certo punto mi sono domandata se fosse normale che fra tutti questi amati padri non ci fosse una madre. Le biblioteche non le proponevano, le grandi panoramiche critiche non le offrivano alla nostra riflessione. Quei pochi nomi femminili che rimbalzavano qualche volta nei discorsi più dotti erano fatti con una certa condiscendenza, come di fenomeni innaturali, un che di strano e di imprevisto da riporre fra le cose abbandonate nei ripostigli polverosi della memoria collettiva.
Ci ho messo anni per scoprire che le madri c’erano eccome. Ed erano non meno brave, coraggiose, profonde, originali dei padri. (“Le grandi madri della scrittura” di Dacia Maraini – Prefazione a Ragione e Sentimento di Jean Austen Ed. RCS 2013. Proponente e lettrice Adelaide Miriana, a Villa Cerillo il 31 gennaio’14)

1 commento:

Anonimo ha detto...

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