“Introduzione”:Tutto quello che so da me
(Michela Murgia in “Accabadora”p.111)
Le invenzioni del razzismo sono insidiose perché finiscono con il creare le realtà che immaginano e i sentimenti che ad esse corrispondono.
(VitoTeti in “La razza maledetta”p.278)
“Pozzuoli è puzzolente, pure l’erba sua è fetente”. Penso sempre a questa filastrocca quando, con il ritorno del caldo, e nei colori dell’estate, ricordo l’infanzia nel mio paese.
Sarà stata una sensibilità precoce, o il fascino che le parole hanno sempre esercitato su di me, ma ogni termine che aveva a che fare con le relazioni ironiche, blande o conflittuali, attirava subito la mia attenzione che, a mia memoria, ha impiegato poco a trasformarsi in curiosità attiva.
Io la canticchiavo, ignara, ma non ci volle molto tempo per capire che gli abitanti dei paesi vicini esprimevano con essa un sentimento non proprio di stima verso i miei concittadini e, quindi, verso di me, per l’evidente presa in giro in essa contenuta: Pozzuoli ( nonostante la sua illustre figlia, Sophia Loren) non è capace di ospitare altro che la “fetenzia”.
Sul cortile della casa in cui sono nata guardavano anche molti altri appartamenti, minuscoli, per famiglie numerose e numerosissime. In uno, abitava Maria “ la bacolese” (originaria di Bacoli, un delizioso paese della Costa Flegrea, fino al 1919 parte del Comune di Pozzuoli), che spiccava tra le donne del cortile, oltre che per la sua simpatia, per la dolcezza strascicata della sua pronuncia così differente da quella marcata del dialetto puteolano. Così, quando nella sterminata tribù dei mocciosi del cortile volevamo prendere in giro qualcuno che faceva lo schizzinoso, lo redarguivamo con la frasetta “ Io sono bacolese”, arrotondando tutte le vocali e strascicando, allungando e separando tutte le sillabe a rimarcare la presa in giro.
Naturalmente i bacolesi, ormai indipendenti dalla “Perla dei Campi Flegrei” e affermatisi come cittadini di un paesino ordinato, pulito e più efficiente, hanno restituito pan per focaccia, contribuendo alla conferma dello stereotipo del puteolano come persona chiassosa e disordinata che si fa distinguere grazie a queste sue non proprio virtù.
Ne ebbi una prova diretta la notte del 26 luglio di un bel po’ di anni fa. In quella data i bacolesi festeggiano S.Anna, la protettrice del paese, con una grandissima festa che si conclude la notte con i “ fuochi di S.Anna”, uno spettacolare lancio di fuochi “ a mare” che riempiono il cielo. Una moltitudine di gozzi di pescatori era dispersa lungo la costa ospitando a bordo decine di spettatori. Ebbi una sola volta la fortuna di assistere a quello spettacolo. Avevo, forse, 14 anni.
Una vera e propria banda di ragazzine e ragazzini del cortile, tra loro parenti o amici, alle h. 23 attraversò il mare del Golfo di Pozzuoli facendo rotta verso Bacoli, sul gozzo di mio cugino Salvatore detto “ Tarallo”, più grande di noi di appena qualche anno. Sbarcammo nella piccola marina a festa quasi terminata. Eravamo felici per questa grande e improvvisata avventura. Eccitati per la gioia, ci scambiavamo ad alta (forse altissima) voce impressioni e sensazioni, correndo lungo la via principale ormai quasi deserta. “ Sono arrivati! Eccoli! Siete di Pozzuoli, vero? E ti pareva?!”. La gioia e l’eccitazione di una banda di adolescenti divenne, anche in questo caso, testimonianza di una “natura “ irrefutabile e incorreggibile.
Non erano lontani i tempi in cui sia Tarallo che la scrivente avrebbero lasciato i Campi Flegrei per andare “ al Nord”, dove avrebbero difeso la fama di “brave persone nonostante siano terroni” ( o “sono terroni ma sono bravi”, espressione equivalente).
Dal Nord tornavano spesso, e vedevano crescere i due nuovi quartieri costruiti per gli sfollati puteolani che avevano dovuto lasciare le loro case a seguito di due grosse crisi telluriche che si susseguirono in meno di un ventennio.
Neanche di fronte allo sperdimento (oltre che alla disperazione causata dalla vista degli orrori architettonici che li attendevano) i puteolani persero la loro inventiva nell’ars nominandi. A causa delle loro file compatte e poderose (a guardarle!), molti edifici del primo quartiere ( Toiano) furono definiti i carrarmati, mentre, altri, costruiti quasi un ventennio dopo, ricevettero il nome battesimale più infantile, ma non per questo meno icastico, di Puffi o Case dei puffi, a causa delle dimensioni dei vani e dell’altezza dei soffitti, ridotta a 280 centimetri in ottemperanza alle nuove normative sul risparmio nel riscaldamento domestico.
In quegli stessi anni, all’inizio dell’estate tornavo in vacanza presso i familiari a raccogliere i pomodori. Nei paesi poco lontani del casertano arrivavano i primi nord africani. Raramente li ho sentiti chiamare vu’ cumprà. L’epiteto più frequente era il rinnovato Biondo ( già attribuito ai militari afroamericani dell’esercito Usa, quasi un cinquantennio prima e ai figli lasciati alle donne napoletane): “Ehi, Biondo!” come saluto o richiamo, ed “Eccolo, il Biondo !” come benvenuto.
Ma neanch’io mi salvavo: di fronte ai miei occhiali scuri e alle mie blande proteste verso l’indifferenza di un negoziante che continuava a servire clienti sopravvenuti dopo di me, l’apostrofe fu secca : “E’ arrivata ‘a’ Mericana”. Già, l’Americana quella dalle abitudini diverse, l’agiata, che parla con un nuovo accento, che torna a casa dall’emigrazione, anche se non da un altro continente.
E qui la faccenda si fa più vicina : all’argomento e ai tempi. Tornavo da Procida. Mare, brezza, colori tardo-primaverili, chiacchiere all’aperto sul ponte del traghetto. Una coppia arrabbiata, probabilmente a causa di qualche disagio subito, commentava ad alta voce: “Non sanno lavorare, non si impegnano, sono proprio degli albanesi, ecco!”. Mi venne da ridere, perché quegli ex lazzaroni, per indicare l’imprecisione e l’imperizia di propri concittadini, li definivano ( o li insultavano?) con il nome di un altro popolo sul quale oggi si concentrano diffidenze e malumori e al quale si attribuisce la responsabilità di disagi sociali di cui, in realtà, è anch’esso vittima. Nell’estate del 2006 la squadra di calcio italiana vinse il campionato mondiale dopo una partita finita ai calci di rigore. Poco prima della fine del secondo tempo, Zinedine Zidane, attaccante e capitano della squadra francese, sferrò una testata al petto del calciatore italiano Materazzi stendendolo sul campo erboso.
Non si creda che a questo punto io voglia parlare delle fighting words, le misteriose “parole rissose” che scatenarono l’inevitabile reazione (cosa che pure sarebbe perfettamente in tema, anzi ne costituisce la sostanza); intendo solo parlare di mie dirette testimonianze. Dopo ben due mesi dal fattaccio, ascolto le parole di una signora che, all’interno di un gruppetto (per il resto tutto maschile), ancora discuteva con passione della partita e della fatidica “capata”. Diceva: “Ma io sono convinta che l’ha sferrata apposta. Io li avevo visti gli occhi: quello sguardo ! uno sguardo da arabo, gli occhi arabi. Ecco, è un arabo, questo è tutto!” Se gli occhi scuri e profondi possono essere considerati uno stereotipo, la convinzione di potervi diagnosticare un’attitudine alla perfidia è un malevolo pregiudizio. Poi, quando un sentimento negativo (in questo caso la perfidia), viene espresso con un epiteto ( qui consistente in un sostantivo o un aggettivo indicante un popolo), siamo di fronte a un insulto a sfondo razziale.
Purtroppo, di questo non si accorse ( o forse, sì!) l’allora presidente del senato della repubblica italiana allorquando, il 12 ottobre 2001, durante la discussione sull’attentato alle Torri Gemelle, riprese l’assemblea vociante e disordinata tuonando :”Questo non è un Parlamento di talebani”, confondendo la maleducazione dei rappresentati degli italiani che hanno più di ventun anni con l’estremismo di una fazione violenta che non rappresenta né le aspirazioni né i sentimenti di un popolo e di una religione.
Nel gennaio del 1991 la prima guerra del Golfo fece irruzione anche nella mia vita, con lo choc provocato da un evento che rifiutavo con tutte le mie forze, con la partecipazione a qualche marcia di protesta e … con la lettura dell’articolo “Cavalieri e bastardi”, comparso sulle pagine del Manifesto, che presentava, in una doppia lista, le diverse considerazioni in cui erano tenute (dalla stampa inglese, raccontata dal Guardian) le forze in campo: da una parte i trentacinque paesi alleati, “noi”, dall’altra l’Iraq, “loro”. Né stralcio solo due brevi punti:” i nostri uomini sono ragazzi. I loro uomini sono orde”; “ Noi ci trinceriamo. Loro si acquattano nelle tane”.
La lettura dell’articolo mi obbligò a un supplemento di riflessione sull’uso della lingua nel trattamento delle informazioni e, soprattutto, sulla funzione aggressiva che viene affidata alle parole. Divenne un pensiero che non mi avrebbe più lasciato, fino a quando, in seguito all’attentato alle Torri Gemelle , “l’attacco preventivo” all’Iraq mi spinse a riflettere non sulle parole”usate per analizzare quel momento”, bensì su “ quelle che preparano quel momento”, facendo leva sull’ostilità e, nel contempo, propagandandola.
In particolare, cominciai a studiare le parole che “ lavorano da sole”: gli insulti che i popoli si rivolgono vicendevolmente. Sono tanti, letteralmente migliaia, pur considerando che le più puntuali ricerche sull’argomento sono spesso circoscritte ai paesi europei e al continente americano.
Anche in questo testo sono presentati molti epiteti ostili e/o beffardi, che tuttavia non costituiscono neanche la metà di quelli che ho raccolto. Una lista completa, corredata delle fonti, richiederebbe un volume a parte. Ho ritenuto opportuno proporne un’ampia scelta, anche a rischio di appesantire la lettura, per mettere in evidenza le dimensioni della pervasività del fenomeno: tutti i popoli ne sono colpiti, tutti colpiscono.
Troppo spesso il linguaggio offensivo è sottovalutato: la convinzione di trovarsi di fronte a un semplice “nomignolo, a una “bonaria presa in giro” o , nel peggiore dei casi, a uno sfogo estemporaneo, rende distratti riguardo alle sue reali intenzioni e conseguenze. Si dovrebbe invece ricordare che queste parole non hanno mai sostituito un’azione violenta né l’hanno mai esorcizzata, anzi, spesso l’hanno preparata, indicando implicitamente una scelta attenta ed efficace dei temi e degli obiettivi -dietro la maschera della “ brillante invenzione linguistica”- e portando dritti alla violenza razzista.
(Da “Insulto dunque sono” di Giovanna Buonanno – EMI 2013 /Testo proposto e letto a Villa Cerillo il 27 Dic.’13 da Carmela Guardascione)
3 commenti:
"etichettare" è giudicare e porre "l'altro" in sottordine rispetto a se stessi..
GIOVANNA BUONANNO, originaria di Pozzuoli, è laureata in pedagogia ed è stata insegnante e dirigente scolastico, in scuole del Bresciano caratterizzate da un'alta presenza di alunni figli di lavoratori immigrati. Ha ideato e diretto il corso di formazione per insegnanti, patrocinato dal Csa di Brescia, sulla vita e i costumi dei rom. È stata responsabile per l'editrice Vannini della collana «Fuochi d'artificio» sulle tematiche interculturali.
Questo libro, che passa brillantemente in rassegna centinaia di ingiurie ed epiteti dall'Italia e dal mondo, e di epoche diverse, ci svela quanto siamo tutti prigionieri di bassi «istinti» linguistici. Quanto, in fondo, il seme del razzismo alberghi in ciascuno di noi.
dal web ...
http://www.liniziativa.net/?p=1155
http://archiviostorico.corriere.it/2013/novembre/20/Insulto_dunque_sono_perche_parole_co_0_20131120_e6b6a5ac-51ac-11e3-b627-e9178c75319e.shtml
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