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lunedì 2 settembre 2013

QUI SI BALLA TUTTE LE SERE di R. Capuano


A Nino e a Pina.

Con grande affetto.

 
Ai tempi del secondo bradisismo, quello dell’ottantatre, chi proveniva da Licola e Cuma ed era diretto a Pozzuoli, percorrendo in auto l’antica via Domitiana, superato lo scorcio mozzafiato che invade gli occhi, in un solo colpo, con l’Averno, Montenuovo, il mare , il Castello di Baia, le marina di Bacoli, Miseno e laggiù, in fondo, avvolti in una foschia cilestrina, Nisida, Posillipo e Capri, - ( sì, proprio quello scorcio che induceva molti viandanti del Grand Tour a fermarsi  inebetiti e a tirare fuori gli album di viaggio e immortalarlo con  inchiostri o acquarelli in rappresentazioni, dove non mancavano mai, in primo piano, villanelle, contadini, asini e qualche quercia o pino contorto dal vento; ma per quei viaggiatori il tempo era dilatato, aveva un’altra dimensione) -  allora, dicevo, superato lo scorcio che vi ho appena descritto e lanciando un solo sguardo fugace a quelle quinte di teatro delle meraviglie, perché oggi, a differenza di tanto tempo fa, abbiamo sempre una fretta dannata, dopo un centinaio di metri, all’entrata di Arcofelice, piazzato sul  bordo del ponte della tangenziale  appariva un cartello che, a grandi caratteri neri, recitava:

“ BENVENUTI A POZZUOLI, CITTA’ DEL TEMPO LIBERO ”.

Forse voleva essere un invito all’autista frettoloso a rilassarsi e a provare anche lui a dilatare il suo tempo, che in quella città  sarebbe diventato “libero”: libero da affanni, preoccupazioni e a propria disposizione per un altro ritmo di vita.
Ma questa illusione veniva annullata subito da una promessa, un impegno, una minaccia: nello spazio bianco sottostante  una mano sconosciuta, creativa, ironica e, perché no, anche coraggiosa , si era calata oltre il guardrail e sporgendosi pericolosamente, aveva scritto con precisione e quasi con gli stessi caratteri:

 “ QUI SI BALLA TUTTE LE SERE”.

Quella mano rendeva con poche surreali parole, la realtà di una terra che sollevandosi ballava e faceva ballare le case, le persone che le abitavano, i letti, gli armadi, i tavoli, le sedie e non lasciava in pace nemmeno i  frigoriferi, posseduti allora ancora da pochi privilegiati, che aprendosi all’improvviso, concedevano la libera uscita per le cucine a uova, gassose, bottiglie d’acqua e di vino, piatti con resti di pranzi o cene e chi più ne ha più ne metta. Un macello insomma.

In quei mesi terra, case, uomini, donne, alberi e persino cani , gatti e ratti erano affetti da un continuo ed estenuante ballo di S. Vito, e non solo di sera, come diceva l’aggiunta al cartello; perché le scosse arrivavano a qualsiasi ora del giorno e della notte.

 
Così la città, che  doveva essere “del tempo libero”, secondo pianificazioni politico-imprenditoriali, diventò, dopo un migliaio di scosse, la città dello spazio libero;
perché alla deportazione degli abitanti del Rione Terra col primo bradisisma, seguì una seconda per quelli che abitavano nel resto della città , che, in accordo con tutte le previsioni, sarebbe saltata in aria con l’eruzione del magma che premeva a tutta forza nel sottosuolo e come  un toro ctonio colossale dava colpi, testate, cornate  per aprirsi un varco e scorazzare libero per i campi ardenti.
Ma tutto passa e tutto si dimentica e anche le paure o meglio, come ancora oggi dicono le donne anziane, le vermenare  di allora non sono più che un vago  ricordo.

Oggi quel cartello e quella scritta non ci sono più, anche perché dopo la chiusura e le dismissioni delle industrie e l’aumento della disoccupazione, la scritta ufficiale suonerebbe come una beffa e si riferirebbe tristemente al tempo libero a disposizione di migliaia di giovani che non trovano lavoro.
Dunque, oggi chi percorre lo stesso tragitto e vuole farsi raccontare di quei giorni, non deve proseguire per il  Rione Terra o per il centro storico della città; lì non troverebbe nessuno dei vecchi abitanti  della Pozzuoli di un tempo; lì, adesso, nelle case ristrutturate e vendute a caro prezzo, ci abita altra gente, venuta da fuori ; ma deve girare a sinistra, prima del ponte e poi ancora a sinistra, e dopo una cinquantina di metri a destra. Si troverà nel Rione Toiano, un quartiere generato dal primo bradisisma, quello del ’70; è qui che abitano la maggior parte degli sgombrati di allora, quelli che vivevano sul Rione Terra e nella parte bassa della città, e qui abitano anche Nino e Pina, centosessantadue anni in due, hanno la stessa età, sposati felicemente da cinquantacinque, protagonisti del primo esodo e  testimoni del secondo più sfrenato ballo che provocò per il resto degli abitanti puteolani un secondo esodo, la nascita di una città nuova, l’abbandono e lo svuotamento definitivo della traballante città vecchia e la morte  di quel reticolo di relazioni, rapporti, attività, tradizioni, modi di vita, di abitare, di comportarsi, di comunicare.

In poche parole la morte di una identità stratificatasi in secoli e secoli, dopo un’altra catastrofe, l’eruzione - (quella volta vera e inaspettata)- del Monte Nuovo, che aveva messo in fuga i pochi abitanti sopravissuti, di generazione in generazione, alla caduta dell’impero, alle invasioni barbariche, ai saliscendi del bradisisma, ad altri terremoti ed eruzioni e alle micidiali e terrificanti incursioni saracene. Ora i resti di quell’identità e di quei valori che fanno di una città quella specifica città- comunità, che nel nostro caso veniva riassunta nel suo nome, Pozzuoli, li devi andare a rintracciare in quel che resta delle vecchie generazioni, attuando una paziente ricerca simile a quella dell’archeologo che ricostruisce mondi perduti, studiando i resti emergenti dai lavori di scavo.

 
E tu se vuoi conoscere qualcosa di quella realtà svanita, devi andare a parlare con Nino e Pina. Però se non hai il loro indirizzo, è difficile trovarli: nessuno li conosce, e anche se hai l’indirizzo, nessuno conosce quella strada, a parte il giornalaio, che devi avere la fortuna di intercettare e l’idea di interpellare, dopo aver ascoltato una decina di ‘ve dico a  verità, io nunn’u saccio. Ce sta via Augusto, via Cicerone, via Traiano , via Lucilio, - e via storiaromaneggiando- ; ma io sta via nun l’aggio maje sentuta ’. Può darsi che non l’abbiano mai sentita; ma se  l’ hanno sentita, l’ hanno subito dimenticata, perché i nomi dati alle strade di questo non luogo di spaesamento e di sconcerto non significano nulla per gli abitanti del megaquartiere o suonano strani alle loro orecchie, abituate ai nomi dei luoghi della loro vecchia città: ‘ncopp’a Terra, a ret’ u Russo, int’a Torre, ‘ncopp’u Carmine, int’u Canalone; nomi e indicazioni creati dalle persone vive e non da urbanisti e tecnici pianificatori, chiusi in uffici supertecnologizzati, lontanissimi dalla sensibilità dei puteolani: chi vuoi che si ricordi di Sergio Orata a cui è stata intitolata una via decentrata e impervia: vuoi mettere un sconosciuto allevatore di pesci e ostriche, che oggi verrebbe chiamato “cozzicaro”, con un imperatore che, giustamente, merita viali ampi e pianeggianti e ha più probabilità di essere ricordato.
Dopo circa mezz’ora di richieste e di giri, grazie al giornalaio, ti trovi fuori dal cratere, lontano da quegli edifici che chiamano Carrarmati, a inerpicarti per una stradina che porta alle prime pendici del monte Barbaro. E’ là che si dipana Via Sergio Orata. E dove poteva abitare un vecchio ex pescatore, se non in quella via? Sono le piccole coincidenze significative.

 
A dir la verità, in questo rione, costruito lontano dal mare, probabilmente ci vivono, o sono  di qui già andati via per sempre, anche altri di pescatori, come  Ciro’ a Raustella,  Biasiello Lamparella,  Ciccillo ‘a Murena,  Totore ‘Nterisassi,  Bbaingio u Purpajuol e tanti altri; ma non si sa se condividono la stessa strada o abitano in un’altra.

Qualcuno  racconta che al tramonto, molti di loro che non avevano più gambe salde o la forza di raggiungere i loro luoghi di vita, uscivano sul balcone o si mettevano alla finestra, sperando di cogliere nel respiro lieve del maestrale qualche odore della darsena, del catrame e del legno dei mastri d’ascia del Valione, del mercato del pesce,  della salsedine, o addirittura sentire le voci gutturali dei pescatori rientranti e lo stridio implorante dei gabbiani che seguono fedeli, al tramonto, le loro barche.

 In via Sergio Orata, non c’è niente di tutto questo. Un silenzio irreale avvolge gli edifici che si raccolgono intorno ad una piazzetta, molto simile ad un grande cortile.  Il vento agita le chiome delle roverelle sulle prime pendici della montagna di tufo e i panni stesi, curiosamente, su stendipanni legati alle colonne dei grandi spazi vuoti, sottostanti  gli edifici. E devi avere la vista buona per individuare l’accesso al palazzo, perché considerata l’ampiezza dell’androne, ti aspetti un grande portone; non è così: alle scale che portano su ai vari piani, si accede da una porticina seminascosta.

Ma ci siamo: Nino ti aspetterà gentile e preoccupato sul pianerottolo del terzo piano e sorridendo, ti manifesterà il suo rammarico, perché non ti sei servito dell’ascensore.
Il viso di Nino è di quelli antichi e schietti, come i suoi occhi: è un ritratto uscito da un affresco pompeiano, un Paquio Proculo leggermente invecchiato. E quello sguardo sorridente e segnato da un’ombra di tristezza, che comprenderete quando avrete ascoltato la sua storia.

 La sua storia e quella di Pina: una vita felice e dolorosa insieme, vissuta  e cementata da un sentimento profondo,  esternato oltre che dalle  parole, dai loro gesti, dagli sguardi che si incrociano teneramente e addirittura dall’arrossire di lei, piccola, minuta, quando Nino, sfiorandole il viso con una carezza, dice che a ottantantun’anni, se potesse risposarsi, sceglierebbe sempre lei: non saprebbe immaginare una vita senza di lei.
Sorridendo, l’uomo racconta che lei, Pina, avrebbe potuto benissimo risolvere i problemi dell’Italia come Ministro delle Finanze, perché nella vita, con cinque figlie, più loro due e col suo solo salario, era riuscita a mandare avanti la famiglia dignitosamente ed aveva messo anche da parte i soldi per fare sposare le sue figlie, con tutti i crismi di una volta: per dirla con un termine alla moda, Pina è un esempio vivente di amministratrice di una decrescita felice, ante litteram. Niente sprechi; riutilizzo di tutti i materiali, gambe salde e conoscenza di tutti i posti e i buchi dove spendere meno e risparmiare, abilità di trasformare semplici materie prime in un pranzo di gala o in vestiti eleganti.
Lui e Pina, insieme dall’adolescenza ,  liberi dagli acciacchi dell’attuale vecchiaia,   hanno avuto la forza di superare guerra, bradisismi, il dolore immenso per la perdita precoce prima dei genitori, di un fratello deportato in Germania dai tedeschi e poi di una figlia amatissima.

Questa donna minuscola, energica, vitale, dalla voce ingentilita da una incredibile  “r” francese, a sua volta racconta di lei e di lui , del loro scegliersi per sempre da bambini, della dignità con cui hanno affrontato una vita, nel passato, spietatamente dura e hanno lottato per la sopravvivenza.
Se le chiedete  delle paure e preoccupazioni causate dal primo e secondo bradisisma, sorride. Le cose terribili erano state altre e tutte insieme li avevano temprati entrambi per affrontare  quella congerie di traversie che spesso la vita riserva agli uomini, alle donne, alle famiglie, indistintamente.

 
Pina ricorda che, quando in un breve lasso di tempo i suoi genitori vennero a mancare, sua sorella maggiore diventò padre e madre – è una storia ricorrente nelle famiglie di una volta -  e la prima cosa che insegnò ai suoi fratelli e sorelle più piccoli fu l’orgoglio e la dignità: non si stancava di raccomandare loro che alle persone maliziose che domandavano se avevano pranzato, dovevano sempre rispondere che tutti loro avevano mangiato a sazietà; anche se in realtà quel giorno il focolare era stato desolatamente spento e il loro stomaco gorgogliava vuoto.

 La seconda cosa che apprese, ancora più importante, era che “chi aveva le mani non moriva di fame” e così le femmine passavano la giornata a cucire e ricamare i corredi per le ragazze più fortunate e  anche quelli per loro, e i maschi imparavano mille mestieri come garzoni di fornai, mastri d’ascia, pescivendoli o pescatori: portando a casa tante piccole somme, che messe insieme facevano andare avanti quella famiglia, decapitata anzitempo.
E il suo Nino, come alcuni suoi fratelli, aveva cominciato ad imparare il mestiere del mare con i suoi zii, purpajouoli.

 
Nino si riprende la parola e, sorridendo, ricorda due episodi legati a questo suo primo mestiere, primo di tanti altri, all’insegna di “impara l’arte e mettila da parte”, lontani nel tempo tra loro, ma entrambi sfiziosi.

 Un giorno a pesca con lo zio, aveva trovato un polpo  rimasto prigioniero in  una bottiglia di vetro dal collo sottile e lì dentro era cresciuto,  non si sa come.
Quel polpo aveva fatto scalpore, attrasse centinaia di persone incuriosite sulla banchina e addirittura fu richiesto dall’Acquario di Napoli per essere studiato.

 L’altro fatto lo racconta, guardando maliziosamente la sua compagna: doveva venire un ospite a pranzo e Pina pensò, sempre secondo le sue strategie parsimoniose, di cucinare dei polpi affogati nella conserva di pomodori , prelevata dalla riserva che lei accumulava ogni estate preparandola con le sue mani, con l’aiuto di figlie, sorelle, parenti e vicini.
 Naturalmente, la materia prima, i polpi, non andava acquistata; non se ne parlava proprio. Toccava al purpajuolo di famiglia procurarli, anche se nel frattempo era cresciuto , si era sposato, aveva generato quattro figlie femmine, una dietro l’altra o quasi, ad ogni tentativo con la segreta speranza di generare un maschio, ed aveva cambiato mestiere,  perché il mare, come la terra,è incostante e a volte ferocemente avaro di risorse.
Attraversa la strada, che divideva la loro vecchia casa dal mare, scende sul fazzoletto di spiaggia, spinge il gozzo a mare, sistema gli attrezzi , specchio, cacatremmolo e lanzaturo e parte.
Ma, a volte, il diavolo ci mette la coda; proprio quel giorno che gli servivano un quattro, cinque polpi, di questi in giro non se ne vede l’ ombra.
Dopo qualche ora, a malincuore, pensò che li avrebbe dovuti comprare, dichiarando, però, di averli pescati di sua mano, se non voleva che la pentola di Nina e il ventre dell’ospite restassero vuoti e che lui facesse una brutta figura.
Un ultimo sguardo, con poca o senza speranza, con la testa ben infilata nella tinozza dello specchio, e il miracolo: una purpessa  gigante si pavoneggiava davanti ai suoi occhi esterrefatti.
Nino per qualche secondo rimase paralizzato, poi rinvenne, afferrò il lanzaturo e il polpo enorme, elegante, dai tentacoli  lunghi e sottili, finì riluttante e in pochi attimi nel secchio di legno sul fondo del gozzo. Il pranzo era salvo.
A casa, Pina appena vide il pescato esclamò: “Ti avevo detto di prendere dei polpi; ma a te non bastano quattro figlie femmine e una moglie, mo’ porti pure a casa na purpessa!
Nino ride con gusto , poi si alza per andare a prendere la fotografia incorniciata della sua antica casa a Pozzuoli, che si ergeva di fronte al mare del porto, poco lontana dal Serapeo, per mostrarla con nostalgia.

 Gli manca il mare. Gli manca il mare, il suo respiro, i suoi odori, i suoi stati cangianti. La casa di Toiano ne è lontana: è grande, spaziosa, addirittura con due bagni –  in quella vecchia c’era un solo  sgabuzzino in fondo al pianerottolo per i bisogni di tutte le famiglie-  purtroppo non ha il mare di fronte: bisogna comunque accontentarsi; questa casa oltre che spaziosa , è anche forte ed ha resistito bene alle scosse del secondo bradisisma, proteggendo la sua vita e quella della sua famiglia.

 Ma se il mare non va da lui; è lui che va dal mare; e ogni mattina si sveglia insieme al sole e agli uccelli che gli fanno festa, e col bus lo raggiunge e lì si intrattiene con i pescatori ed altri amici venuti alla ricerca del tempo e dei luoghi perduti.
Ogni giorno se ne torna a casa con pesci e molluschi; per niente costosi o pregiati, e Pina, sollecita ed esperta, li trasforma in fritture, zuppe, sughetti per vermicelli o paccheri, tutti degni di un ristorante a svariate stelle.
Quando è maltempo e Nino non esce; si mette alla finestra e si consola col piccolo mare che si forma nel campetto sportivo sottostante, che si allaga puntualmente  e con le acque increspate dal vento, gli da l’illusione di essere nella casa di un tempo.

 E l’illusione continua nella stanza- salottino in cui  riceve: sui mobili, si danno in mostra all’ospite coralli, conchiglie, foto di persone con enormi pesci pescati o del porto, piccoli pezzi di reti, modellini di antiche barche, timoni ed ancore in miniatura, tutti costruiti e sagomati dalle sue sapienti mani.
E c’è anche la foto di una ragazza, quella che ricorda il loro dolore più grande: è quella di una delle figlie che , dicono, innaturalmente è andata via prima di loro.
E i loro occhi si annebbiano e si svuotano; proprio come le molte  stanze silenziose dell’appartamento che li ospita: enorme, adesso, per loro, dopo che le figlie, sposate, sono andate ad abitare altrove.
Ma come se leggessero i pensieri dell’ospite, si affrettano a dire che quelle stanze risuonano di vita nei sabati , nelle domeniche e durante tutte le belle ricorrenze, perché le ragazze con le loro famiglie ritornano, insieme, in quei giorni; ed è  sempre una festa, con Pina ai fornelli che, senza scoraggiarsi, prepara manicaretti per l’esercito che, gioiosamente, le ha ripopolato la casa vuota.

 

 
E poi Nino riprende il racconto della sua vita, i cento mestieri praticati, il posto definitivo nell’acciaieria di  Bagnoli, la sua militanza politica nel partito che una volta rappresentava con orgoglio la classe operaia e dava le coordinate dell’esistenza ai lavoratori, consapevoli di essere parte di un tutto e portatori di un progetto per una società futura, buona da abitare per i propri figli.

 E invece, poi, oltre al bradisisma di Pozzuoli, c’è stato un grande bradisisma che ha scosso anche tutto il paese, mandando in frantumi la società e i suoi valori, proprio come è successo a Pozzuoli. Questa città ha anticipato di qualche decennio tutto quello di devastante che sarebbe accaduto nel paese. Sono  le considerazioni amare di una persona che nella vita ha visto di tutto.

Figuriamoci se i tremori e le minacce del sottosuolo lo spaventavano: allora, poi, c’era anche la forza della giovinezza e quella di un corpo che si muoveva e operava agile e vigoroso.
Quando le piccole strisce di vetro, che  i tecnici avevano piazzato sulle crepe della loro vecchia casa sul mare, si spaccarono, Nino non si perse d’animo.

 In quel periodo, egli lavorava a Salerno con una società addetta alla posa di tubi: una domenica si fece prestare il camion dalla ditta, venne a Pozzuoli, caricò mobili, figlie e moglie e le “mise in salvo” in un appartamento in un paese vicino Salerno, quando finì il lavoro laggiù, accettò una sistemazione in una casa a Giugliano . Un po’ di anni e poi finalmente il ritorno vicino a Pozzuoli, nella grande casa a Toiano.
Oddio, davano preoccupazioni tutti questi spostamenti; ma lui adesso aveva un bel posto fisso all’Italsider di Bagnoli che gli dava tutta la sicurezza di una buona vita per lui e la sua famiglia. E poi, che cosa vuoi che spaventi, uno che da bambino è stato inseguito dai tedeschi e ha visto il suo piccolo amico, colpito a morte, precipitare nel canalone in piena per la pioggia e sparire per sempre.
Era tempo di guerra e di fame nera, lui aveva solo una decina d’ anni, con i compagni coetanei, la testa riparata dalla pioggia con i sacchi di juta che sarebbero serviti a raccogliere le mele, su in collina, in un meleto abbandonato; poi  il filo del telegrafo dei tedeschi tagliato per legare i sacchi, i soldati che li rintracciano, li inseguono , li mitragliano. Si salvano tutti grazie alle loro gambe; tranne Procolo, che ci rimane. Il suo corpo svanirà nel nulla, e non avrà il pianto dei suoi.
Questa  fu una delle paure-dolore che lo iniziò alla crudezza della vita, lo segnò e lo forgiò per altre dure prove.
“Avevo solo pochi anni, adesso ne ho ottantuno: quanto tempo…”

 
Dopo averli ascoltati, lasciandoli, li abbracci  forte, commosso. E pensi che hai incontrato due dei milioni di pilastri saldi, densi di valori veri, su cui ha poggiato e poggia un paese che resiste, nonostante molti ce la mettano tutta per mandarlo in rovina.
( Rosso Capuano)

3 commenti:

Marzullann ha detto...

A proposito della "Gens Flegrea" e del suo "bel territorio"... Ecco un "gradevolissimo racconto" di un caro amico del CantuccioLetterario.
Grazie Rosso !

Assunta Esposito ha detto...

Trovo questo racconto sublime. E' una storia bellissima delicata, ironica e commovente. All'inizio ho riso per alcune battute tipiche, alla fine ho pianto. Un libro raccontato con una vera arte della narrazione in cui le descrizioni si fanno anima e lasciano popolare l'immaginazioni di luoghi e personaggi. un racconto che sa toccare il cuore. Complimenti Rosso,con la tua scrittura mi hai donato attimi di emozioni sublimi. Grazie.

l'Amica annamaria ha detto...

Rosso.. Assunta .. Siete entrambi " bellissimi narratori-flegrei " .. sapete raggiungere il cuore delle persone .. conoscete d'istinto "l'arte dell'affabulare" ... siete "fabulosi" ! .. perciò Vi amo !